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Apprendo questo meraviglioso idioma da un amico. I giapponesi hanno un unico modo per indicare chi compra libri e poi li lascia a prendere polvere nell’attesa di essere letti. Wiktionary definisce la parola come «L’atto di non leggere un libro dopo averlo acquistato, solitamente impilato assieme ad altrettanti libri che hanno subito la stessa sorte». Appunto. Mi trovo completamente d’accordo con chi la definisce la lingua degli dei.

Il fatto è che sono affetto da ciò. A me capita con i manga, i fumetti ed i videogiochi, ma più o meno è la stessa cosa. Non lo faccio apposta, forse mi piace circondarmi di cose, accumulare cose inutili promettendo a me medesimo di fruirne, un giorno. Certo.
Sulla mia scrivania, mentre vi scrivo ci sono due piccole pile, una di manga e una di videogiochi. Alcuni iniziati, altri mai toccati/aperti/sfogliati. Più una libreria intera piena zeppa di roba da leggere. Si potrebbe definire una versione ordinata dello tsundoku.
Ho sempre avuto la smania di collezionare, ma una volta gli album di figurine davano più soddisfazioni, decisamente.

Un giorno d’estate una piscina pulita e piastrellata d’azzurro disse alla cisterna che stava poco distante: «Tu sei nera e buia, stai sottoterra in compagnia di muffe e serpi e solo le gocce stillano nel tuo silenzio di tomba. Guarda me, invece, mi godo il sole, giovani fanciulle seminude allietano le mie sponde con risa e lazzi, una brezza leggera increspa le mie acque limpide».
«Stolta — rispose la cisterna — non sai che per tutto l’inverno io raccolgo pazientemente l’acqua che serve a riempirti per la tua breve e futile estate?»

… preparare l’adattamento dell’animale umano al potenziale impoverimento del pianeta.
— Yona Friedman, architetto, 2009

« Caro Sindaco,
oggi abbiamo una Terra con sette miliardi di individui, dilaniati da disparità intollerabili, che con ogni loro bisogno e ogni loro scelta di consumo incidono sul clima, sull’acqua, sulla salute, sulla produzione di scorie e rifiuti di durata plurimillenaria, sulla disponibilità di cibo e materie prime, per sé stessi e per tutte le generazioni future. Abbiamo una tecnologia che non è mai stata così potente, ma è un’arma a doppio taglio. Abbiamo un mondo estremamente complesso, ma pure fragile. Abbiamo un’economia basata su un’impossibile crescita infinita, alla quale però obbediamo stoltamente come a una religione. Abbiamo religioni e ideologie antiche, totalmente inadeguate a gestire questo rapido cambiamento epocale.
Caro Sindaco, amministrare oggi è una responsabilità enorme, e sulle tue spalle grava non solo il giudizio dei tuoi elettori, non sempre informati, non sempre onesti, che vogliono solo risposte concrete per oggi, ma pure quello delle generazioni più giovani e di quelle ancora a venire, che ti condanneranno senza pietà o ti ringrazieranno per l’eternità, perché dalle tue scelte dipenderà il loro benessere.
Come per un grave malanno c’è un tempo nel quale la prevenzione ha ancora un senso prima che i sintomi divengano incurabili. Sei proprio tu, e solo tu quello che può fare ancora qualcosa. Adesso. Dopo sarà troppo tardi.
Allora prova a uscire dagli schemi, dal conformismo ideologico, dalle soluzioni semplificate, dalla comodità, dal piccolo o grande interesse, dall’ignoranza, dalla supponenza.
Prova a pensare a un progetto che parta dalle esigenze dei cittadini di oggi e di domani, coinvolga i centri di ricerca per trovare le soluzioni più razionali tramite la condivisione con le persone dei vari scenari possibili. Prova a immaginare città con aria più pulita, con più verde, con mezzi pubblici più efficienti, con più spazio per i piedi e le biciclette, con più risparmio energetico, con meno rifiuti, con meno automobili, con meno consumi superflui, ispirandoti a modelli virtuosi che stanno nascendo proprio nella nostra Europa.
Prova a ricreare i legami fisici e sociali tra città, territorio extraurbano e piccoli centri, fermando la cementificazione, promuovendo la diffusione equilibrata delle energie rinnovabili, i circuiti di produzione di cibo locale, la salvaguardia del paesaggio, la consapevolezza dei limiti.
Raccogli la sfida ecologica globale come punto di partenza per pensare il futuro con un progetto coraggioso che metta la ricchezza sociale prima della ricchezza economica, che pure potrà rigenerarsi con nuove produzioni ecocompatibili.
Oggi hai internet che ti permette di informarti più velocemente e più profondamente su ciò che accade nel mondo. Fai rete, circondati di una squadra competente in tanti settori: non potrai fare tutto da solo, è impossibile. Pensa al carattere di irreversibilità delle tue azioni: ogni grammo di CO2 in più nell’atmosfera, ogni metro quadrato di cemento in più e di suolo in meno, ogni capriccio al posto di una reale necessità avranno conseguenze anche gravi nel tempo e nello spazio.
Per favore, fai tanta manutenzione e poche inaugurazioni. Metti davanti a tutto la cura dei beni comuni, l’ambiente, la sanità, l’istruzione e la preparazione dei cittadini ad affrontare nuove scarsità: è l’unico modo per proteggere la società civile dalla trappola delle barbarie, che sempre emerge quando la torta diventa più piccola.
Tanti auguri, siamo tutti con te, perché il sindaco amministra con i cittadini. Insieme ce la faremo. »

Estratto da Prepariamoci (edizioni chiarelettere – 2011), pagg. 5, 6 e 7.

Inviate questa lettera al vostro comune. Il tempo del cambiamento è giunto.

Eurasian Otter, England

Noi viviamo a spese di altre regioni del mondo o delle generazioni future.
— Ufficio federale svizzero dello Sviluppo territoriale

Riassumendo, questi sono i principali fattori forzanti dei nostri tempi, e rappresentano una sfida inedita e di enorme portata per la nostra civiltà.

1) Il cambiamento del clima dovuto alle emizzioni di CO2 sta preparando per noi un pianeta più caldo, tra 2 e 5 °C in più a fine 2100; il Mediterraneo è destinato a divenire più torrido e siccitoso d’estate, immaginiamoci un’estate 2003 permanente.
2) I ghiacciai alpini saranno pressoché estinti verso la metà di questo secolo e i fiumi europei avranno meno portata idrica in estate, con riflessi su agricoltura e produzione energetica.
3) Gli eventi estremi (alluvioni, tempeste ecc.) potranno aumentare di intensità e frequenza con maggiori danni per le attività umane.
4) Il livello dei mari è in aumento e verso fine secolo potrebbe essere di circa un metro più elevato.
5) Gli oceani si stanno acidificando a causa dell’aumento della CO2 atmosferica, mettendo a rischio molte forme di vita.
6) Il ciclo dell’azoto è pesantemente alterato.(6)
7) Il fosforo, elemento fertilizzante indispensabile ai vegetali, è sovrasfruttato e costituirà presto un limite alla produttività agraria.(7)
8) La popolazione è troppa (7 miliardi) e continua ad aumentare. Anche l’Italia è sovrappopolata (60 milioni).(8)
9) Le risorse petrolifere mondiali «facili» sono in rapido esaurimento.(9)
10) Le risorse naturali, le foreste e gli stock ittici sono sovrasfruttati.
11) La biodiversità è gravemente minacciata e molte specie si stanno estinguendo a un tasso molto superiore a quello geologico medio.
12) Cementificazione ed erosione stanno riducendo la disponibilità di suolo agrario fertile.
13) Inquinamento e rifiuti sono ovunque in aumento e minacciano la salute dell’uomo e degli altri viventi.
14) L’economia di mercato non funziona, le disparità aumentano.

Questi condizionamenti stanno già determinando reazioni.

1) Crisi economica e finanziaria globale, con enormi debiti pubblici.
2) Aumento della conflittualità tra gli stati e nuove guerre per le risorse energetiche e naturali (petrolio, land-grabbing).
3) Aumento del prezzo dell’energia.
4) Riduzione di produttività agraria e disponibilità alimentare a causa dell’aumento del prezzo del petrolio e dei cambiamenti climatici.
5) Instabilità sociale e migrazioni, masse incontrollabili di profughi climatici (a confronto i barconi di Lampedusa sembreranno in futuro allegre gite turistiche).
6) Riduzione del benessere e della qualità della vita.
7) Aumento delle disparità sociali.
8) Aumento della disoccupazione.
9) Rischio di derive autoritarie e riduzione della democrazia (dove c’è).

[…]

Quando, dove e come queste crisi si svilupperanno non ci è dato saperlo, ma le probabilità che si verifichino sono elevate e non c’è tempo da perdere. Più che salvare il pianeta, dobbiamo salvare noi stessi!

______________________________________
(6) http://www.n-print.org
(7) http://phosphorusfutures.net
(8) http://www.postcarbon.org/report/131587-population-the-multiplier-of-everything-else | http://www.prb.org
(9) http://www.peakoil.net | http://www.aspoitalia.net | http://www.theoildrum.com

Estratto da Prepariamoci pagg. 44, 45, 46 di Luca Mercalli, edizioni Chiarelettere

Questo racconto di Luca Mercalli fu pubblicato su «L’Alpe», n. 7, nel dicembre 2002 e ripubblicato su Prepariamoci edito da ChiareLettere nel maggio 2011.

Range of mountains, Mont Blanc Isaac Ilich Levitan - 1897 Range of mountains, Mont Blanc
Isaac Ilich Levitan – 1897

Sarebbe già un conforto per la nostra debolezza se tutto perisse con la stessa lentezza con cui si è formato. Invece la crescita è lenta, la rovina è rapida.

Seneca, Lettere a Lucilio.

Pomeriggio caldo e polveroso. Da due mesi l’anticiclone subtropicale estivo opprimeva di caldo e siccità la pianura. La pista dell’aeroporto denotava scarsa manutenzione: la vernice bianca e gialla della segnaletica orizzontale era screpolata e ciuffi di erba secca spuntavano dalle crepe nell’asfalto ardente. Poca gente, poche aeromobili, servizi ridotti all’essenziale. Il viaggio era durato sette ore e ventidue minuti. Non tanto per la distanza percorsa, quanto per l’attesa alla partenza. La legge globale imponeva la massima efficienza nell’uso dell’energia e il velivolo decollò solo quando fu a pieno carico. Data la scarsità di viaggiatori si dovette attendere a lungo che tutti i 348 posti disponibili venissero occupati e le stive riempite. Durante il volo furono servite focacce salate in un cesto collettivo, nessuna reminiscenza dei complicati imballaggi usa e getta – se ne contavano un tempo fino a 19 per vassoio – che avvolgevano dispendiosi pranzi artificiali da pochi chilojoule alimentari.

Mi avviai a piedi verso l’uscita e attesi sotto il sole. Dopo trentaquattro minuti comparve un’automobile. Si fermò. Lo sportello si aprì permettendomi di occupare l’unico sedile ancora libero. Mi venne fornito il codice da inserire nel mio entropimetro da polso. Non dissimile da un orologio, si trattava di un misuratore del disordine prodotto dalla degradazione di energia non rinnovabile. Era di uso obbligatorio, fissato con un bracciale di quelli un tempo impiegati per i detenuti. Funzionava a celle solari e permetteva di calcolare la quota massima di consumo energetico per persona – o se volete, di entropia producibile – stabilita dalle leggi globali. Ogni attività che attingesse a fonti energetiche non muscolari o rinnovabili era razionata e soggetta a controllo. Non avrei mai potuto utilizzare un’auto a cinque posti secondo le assegnazioni individuali, solo mezzi collettivi a bassa produzione di entropia. Il codice che digitai sulla piccola tastiera si riferiva a priorità governative ed evitò la comparsa del segnale rosso che avrebbe causato il mio arresto ai posti di blocco. Chi veniva sorpreso a produrre più entropia della quota consentita era condannato alla restituzione maggiorata dell’energia sotto forma di lavoro muscolare.

Partimmo a bassa velocità. Fuori dall’aeroporto regnava la desolazione. Nella vivida luce del primo pomeriggio, edifici cadenti, vetri spaccati, cumuli di macerie, immensi parcheggi deserti a tratti punteggiati di carcasse arrugginite, shopville sventrate, l’azzurro sporco di vuote piscine che furono il capriccio di molti. Ovunque asfalto e cemento fessurati, costellati di crateri, invasi da erbacce. Pochi alberi limitati alle aiuole di centri commerciali e agli anelli degli svincoli autostradali. D’altro suolo naturale non ne era rimasto più, consumato tutto, ricoperto, impermeabilizzato, isterilito, inservibile. Comparve una miniera di rifiuti, una delle poche installazioni ancora attive sulle pianure. Qui lavoravano esseri impegnati nel recupero di materie prime ormai esaurite da decenni o di altre che era troppo costoso produrre: rame, alluminio, plastica. Pur comprendendo che la causa dei mali attuali stava proprio in quelle immense colline ributtanti nate dagli sprechi e dalla insostenibile entropia prodotta dal secolo precedente, erano comunque benedette da molti come unica fonte di risorse a basso costo. Era un risultato della crisi mondiale del 2068. Non ci volle molto. Fu come il gioco del domino, fu il collasso della complessità, l’apoteosi della non-linearità. L’effetto serra progrediva da cinquant’anni, temperatura media più tre virgola otto gradi, ma ci si fece l’abitudine. Al caldo di troppo si rispose mettendo al massimo i condizionatori d’aria e costruendo nuove centrali elettriche a petrolio. Un sabato, la temperatura alle ore 15 era di 37,8 gradi Celsius. La maggior parte degli abitanti della pianura iperurbana spendeva il pomeriggio in solarium e palestre, in centri commerciali, centri fitness, centri antirughe e centri antipeli. Il cielo si oscurò, ma pochi se ne accorsero, da tempo non lo guardava più nessuno, il cielo. Comparve un uragano, il primo uragano mediterraneo. I venti soffiarono a 494 km/h, tetti e automobili volarono via, la pioggia inondò le strade. Migliaia perirono. Altri uragani colpirono contemporaneamente qua e là nel mondo. Le assicurazioni non riuscirono a pagare i danni e fallirono. I governi fallirono. I trasporti divennero complicati e il commercio antieconomico: consumare più energia di quanta ne conteneva il carico stesso era follia. Ci si rese conto già dopo pochi giorni, che le verdure non crescevano al supermercato. Si cercò terra da coltivare – pochi sapevano ancora farlo -, ma non ne era più rimasta. Cemento, asfalto, macerie. Fu allora che ci si accorse delle montagne. Lì di terra ce n’era ancora. E anche di boschi e d’acqua. E anche un po’ di cultura e saggezza. La cultura della bassa produzione di entropia, dell’uso dell’indispensabile e della mancanza del superfluo. Il modello del climax fu a poco a poco riscoperto in antiche comunità relitte tra i monti. Climax, che in greco vuol dire scala e in ecologia vuol dire raggiungimento della stabilità. Non crescita continua, non corsa verso il totale sfruttamento delle risorse disponibili. Ma questa volta non si poteva più sbagliare. Ultima occasione. Fu costituito il governo globale. Le montagne furono ripopolate secondo un programma demografico a numero chiuso. Il benessere non era negato, ma moderato. L’uso dell’energia e del territorio, controllato e rispettato. La libertà soggiaceva semplicemente a leggi di natura, agli ineluttabili principi della termodinamica.

Ci avviammo verso le montagne. Le erbe riarse della pianura lasciavano il posto a ciuffi più verdi: le piogge sono più frequenti sui versanti. Il posto di frontiera era semplice ma efficace. Il codice di accesso contenuto nell’entropimetro permetteva l’apertura di un varco nel sistema di intercettazione elettromagnetico. Oltre la frontiera, erba verdeggiante e boschi. Quasi come un secolo prima. Ricordi lontani, echi di valli perdute. A sinistra, seminascosto, un deposito di materiali, frutto dei recuperanti, squadre di addetti al riciclaggio dell’immensa rete di tubi e congegni che decenni prima erano stati interrati tra boschi e pietraie: trattavasi di uno stravagante sistema per degradare energia nobile, chiamato un tempo “innevamento programmato”.

Ecco ora piccoli nuclei abitati sui pendii a pascolo. Case di pietra e legno con limitata dispersione termica, celle solari ovunque possibile, riciclo di tutti i prodotti domestici. Dighe per l’invaso delle acque e la produzione di preziosa energia idroelettrica. Trenini e piccoli autobus, rare le automobili. Economia mista, agricola e commerciale, come furono i popoli Walser o dei Sette Comuni.

La riunione era fissata per la sera, nella sala capitolare dell’abbazia. Mi fu assegnata una stanza in una locanda nella parte antica del villaggio. Ambiente accogliente, muri foderati di legno, una grande stufa di pietra in centro. Stanze sobrie ma linde, profumate di resina. Nessun idromassaggio ma una semplice doccia ad acqua calda solare, con rubinetto temporizzato per scoraggiare abusi: fu sufficiente ad asportarmi di dosso la polvere e l’angoscia intollerabile della pianura. Scesi al ristorante, illuminato morbidamente da poche lampade e candele: eccellente la frittata di patate e lardo, la minestra di spinaci e lenticchie, il formaggio d’alpeggio con miele. Non ostriche o manghi a quota milletrecentoventisei sul livello del mare. E neppure polverine per ridurre l’assimilazione dei cibi: gran segnale di decadenza che si presentò all’inizio del secolo, un nonsenso nell’universo biologico, da miliardi di anni teso a massimizzare la resa energetica. Sul tavolo, un rametto di pungitopo, non fiori del Kenya. Da bere chiesi acqua di fonte, del resto il commercio d’acque in bottiglia era proibito: per decenni gli autocarri avevano consumato quasi tanti litri di gasolio quanti ne avevano trasportati del normale liquido onnipresente.

Imbruniva quando uscii, la brezza di monte rinfrescava la piazza, un orto tranquillo, qualcuno passeggiava, perso in chiacchiere, qualcuno concludeva commerci quotidiani ma senza l’assillo della crescita infinita del PIL, abolito ovunque per l’incompatibilità dell’asintoto con il mondo reale.

Mi fu indicato l’ingresso abbaziale, un arco di pietra scura a sesto acuto, il chiostro nell’ultima luce serale, le nere gallerie, la sala millenaria. Il consiglio iniziò: “Recupero della memoria”, sessione decimottava. Qua e là l’antica comunicazione via Internet funzionava ancora e permise di ricucire un percorso, una storia di libri che i più giovani ormai ignoravano. Alcune biblioteche di bassa quota erano sopravvissute agli sconvolgimenti ambientali e sociali, ma era qui, sulle montagne, che si concentrava il nuovo sapere, era qui, tra le scure sale dell’abbazia che si ricostruiva e si custodiva la conoscenza. Come d’abitudine, ciascuno dei dieci partecipanti aprì una cartella, ne trasse un libro, ne uscirono voci lontane nel tempo, vicine nei fatti. Parlò Esiodo con le «Opere e i giorni» ricordando che “L’uomo ricco di immaginazione rimugina di fare un carro: stolto! Ché non sa nemmeno che cento sono i pezzi del carro e che bisogna prima radunarli in casa.”, parlò Virgilio con le sue Georgiche. “O troppo fortunati, se comprendono i loro beni, gli agricoltori! Ai quali lontano dalle armi discordi la terra giustissima produce agevole vitto dal suolo. Se non vedono un alto palazzo con porte superbe riversare da tutti gli atri un’enorme onda di salutanti mattinieri; se non ammirano a bocca aperta i battenti screziati di bella testuggine, drappi e fregi d’oro e bronzi efirei; se non imbellettano la bianca lana con porpora assiria, né corrompono l’uso del limpido olio mischiandovi la cannella, hanno una sicura pace, una vita ignara d’inganni, ricca di vari beni, un riposo in ampi terreni, grotte e vivi laghi, fresche vallate e muggiti di buoi e dolci sonni sotto gli alberi; ivi gole selvose e covili di fiere e giovani forti al lavoro e contenti del poco, sacri i riti degli dèi, santi i padri; tra loro la Giustizia, lasciando la terra, impresse le ultime orme”

Lucio Anneo Seneca con le «Lettere a Lucilio» mise in guardia: “Fino a quando le nostre messi copriranno estensioni di terreno sufficienti ad alimentare grandi città? Fino a quando tutto un popolo dovrà mietere per noi? Fino a quando una moltitudine di navi, e non da un solo mare, trasporterà provviste per una sola mensa? Un terreno di pochi iugeri basta per saziare un toro; una selva è sufficiente per molti elefanti. Per saziare l’uomo c’è bisogno della terra e del mare. E che? Dopo averci dato un corpo così piccolo, la natura ci avrebbe dato un appetito così insaziabile da superare l’avidità delle bestie più grosse e più voraci? Non è la fame del nostro ventre quella che ci costa molto, ma l’intemperanza.”

E poi Jean Giono con «Le vere ricchezze»: “E Mme Bertrand disse: Sto per fare il pane. Ella ha versato la farina, Bertrand è andato a cercare dell’acqua, e mentre lui era alla fontana lei ha compreso che questo pane era di certo un lavoro da donne, un lavoro per il quale ci voleva per così dire un sentimento materno, e, in più, ci voleva anche della seduzione. … Ma dove hai visto donne che impastano? Forse quelle che assomigliano agli uomini, ma io no! E allora? E allora, diss’ella, bisogna che ti togli la camicia e ti ci metti tu con le tue braccia massicce. … Quel giorno pioveva fitto senza lasciar pensare che finisse. Le cime delle montagne non si vedevano più. C’era una specie di luce che faceva venir voglia di dormire. Bene, cominciamo. Mme Bertrand gli accese il lume – perché è sempre scuro in quei profondi recessi della casa dove è custodita la madia – e via, si comincia. Egli ha immerso le braccia nella pasta. Ha sentito se era abbastanza umida o meno. D’un tratto, tutto un sapere s’è risvegliato in lui. Ha compreso cosa doveva fare. Ha pensato a gesti di suo padre e di sua madre, a rumori che aveva udito quando era fanciullo. Ha messo i suoi gesti nella traccia dei gesti dei suoi antenati. (…) Noi siamo là, davanti al forno comune di questo borgo di montagna: quest’opera di fuoco che hanno fatto rivivere, che crepita dolcemente, dal quale tra poco toglieremo le braci e inforneremo le miche di pasta. … C’è un lungo momento nel quale non diciamo più nulla. … Noi siamo come su una nuova arca di Noé. Noi portiamo l’essenziale in questo forno pieno di fuoco.”

Di Mario Rigoni Stern si trovarono due libretti sottili, «Sentieri sotto la neve» e «Inverni lontani»: “Il pastore, il malghese, il carbonaio, il cacciatore convivevano in armonia e il prelievo che veniva fatto in erba legna, selvaggina era a suo modo equilibrato: non si distruggeva il pascolo o il bosco di mugo, non si decimava la selvaggina, perché se ciò fosse accaduto si sarebbe finito in breve di pascolare, di far carbone, di cacciare. Una regola molto semplice.”
“In attesa dell’inverno anche da noi è bello lavorare non per accumulare denaro sul conto corrente ma scorte di legna secca, farina, patate, verdura in composta, marmellate, funghi secchi, oca a pezzi nel suo grasso, carne secca affumicata anche di selvaggina, lardo sotto sale nella pietra scavata a truogolo, sardelle pure sotto sale, formaggi, miele, e così via con i prodotti che la natura ci dona dalle semine di primavera alle raccolte dell’autunno.”

Con «Il mondo dei vinti» di Nuto Revelli si ebbe traccia di una difficile transizione avvenuta verso il 1970 – ormai più di un secolo fa -, tra il mondo contadino della montagna e quello industriale della pianura. Michele Giuseppe Luchese, nato nel 1885, era un contadino saggio di Roccasparvera, ai piedi delle Alpi del sud, e vide lungo: “La vita d’oggi? E’ fin troppo comoda, perciò la gioventù non si abbassa più a niente, vogliono solo più divagarsi, divertirsi e stare bene, lavorare più poco che si può. (…) io non sono né un profeta né uno spiritista, ma da un’estremità siamo saltati a un’altra. (…) La vita oggi è cambiata da così a così. Sì, è cambiata in meglio. Ma non per tutti. Oggi c’è il benessere, troppa abbondanza, alla radio parlano di milioni e miliardi come niente. Che vada sempre bene come oggi, io auguro ogni bene ai giovani. Ma il benessere bisogna anche saperlo curare, non sprecarlo”.

Che il contatto con la terra, con la natura, fosse irrinunciabile, apparve in Hermann Hesse, «Ore nell’orto»: “Qui si stende un tratto di terreno piano, un bene raro in un fondo così ripido, dove a ogni albero, ad ogni vite si fa posto con ingegno e accortezza, nei terrazzi strappati al pendio. Eccola proprio qui, piccola e stretta, ma pur sempre una striscia di terreno livellato, una benedizione; qui coltiviamo le nostre verdure, qui passiamo, uomo e donna, una parte dei nostri giorni, lontano da casa, nascosti nel verde; noi amiamo il nostro regno vegetale, e molto, perché qui si concentra un valore e una ricchezza non da poco, un valore che l’estraneo (ma non a tutti si concede di vederlo) stenta a capire, ma che noi apprezziamo come un tesoro di cui esser grati.”

Ma ormai il cambiamento di pensiero era in atto, conseguenza teorizzata da Thomas Kuhn con «La Struttura delle rivoluzioni scientifiche»: “Poiché l’unità di misura della conquista scientifica è il problema risolto e poiché il gruppo (professionale) sa bene quali problemi siano già stati risolti, pochi scienziati si lasceranno facilmente persuadere ad adottare un punto di vista che mette di nuovo in discussione molti problemi che sono già stati precedentemente risolti. La natura stessa deve essere la prima a mettere in pericolo la sicurezza professionale facendo sembrare problematiche le conquiste scientifiche raggiunte in precedenza”.

Infine, «Armi acciaio e malattie», di Jared Diamond, riservò sagge considerazioni: “Le prime società della Mezzaluna Fertile e del Mediterraneo orientale, ebbero la sfortuna di sorgere in un’area ecologicamente fragile, e commisero un suicidio ecologico distruggendo le loro risorse forestali. All’Europa occidentale e settentrionale questo fato fu risparmiato, non perché fossero abitate da popoli più previdenti, ma perché il loro ambiente era più resistente, con maggiori precipitazioni e rapida ricrescita della vegetazione.” Dunque “i sistemi storici sono estremamente complessi, perché sono caratterizzati da un numero enorme di variabili correlate. Piccoli cambiamenti a basso livello possono avere grandi effetti ad alto livello. … Comprendere i meccanismi della storia è molto più complesso che comprendere quelli dei fenomeni deterministici. …Faremo un grande regalo alla nostra società se capiremo cosa ha plasmato il mondo moderno, e cosa potrebbe plasmare il futuro”.

Per quella sera poteva bastare. Si lavorò nottetempo per riassumere, rielaborare e riflettere, e ne uscirono nuove indicazioni per affinare le leggi globali, sotto il governo del Secondo Principio della Termodinamica.

Frugando nella cartella alla ricerca di un taccuino, mi venne in mano un altro libello. Un libello come tanti, di quelli che si leggono per distrarsi mentre si aspetta un mezzo. Georges Perec, «Specie di spazi». Lo aprii a caso, pagina 93: «…la sensazione della concretezza del mondo: qualcosa di chiaro, di più vicino a noi: il mondo, non più come un percorso da rifare senza sosta o come una corsa senza fine, non più come una perenne sfida da accettare senza tregua, non come unico pretesto per una esasperante accumulazione né come illusione d’una conquista, ma come ritrovamento d’un senso, come percezione di una scrittura terrestre, d’una geografia di cui abbiamo dimenticato di essere gli autori.» Riunii di nuovo i colleghi dispersi e aggiungemmo un comma alla legge.

Quando uscimmo, albeggiava. Profumo di pane nell’aria fresca del mattino montano. Una nebbia sottile sul torrente, nel punto dove si apre e divaga nel fondovalle. E, come gorgoglia l’acqua, così la storia dell’uomo continuava a dipanarsi tra i valloni profondi, sui ripiani assolati, nelle gole ombrose, sulle creste ventose. Una storia nata forse in luoghi così in un tempo remoto. Una storia che un giorno, forse, tornerà di nuovo in pianura.

I testi citati sono:
Esiodo, Le opere e i giorni. Biblioteca Universale Rizzoli.
Virgilio, Le Georgiche. Biblioteca Universale Rizzoli.
Seneca, Lettere a Lucilio. Biblioteca Universale Rizzoli.
Giono Jean, 1937 – Les vraies richesses. Grasset.
Rigoni Stern Mario, 1998 – Sentieri sotto la neve. Einaudi.
Rigoni Stern Mario, 1999 – Inverni lontani. Einaudi.
Thomas S. Kuhn, 1969 – Struttura delle rivoluzioni scientifiche. Einaudi.
Diamond Jared, 1998 – Armi, acciaio e malattie. Breve storia del mondo negli ultimi tredicimila anni. Einaudi.
Perec Georges, 1989 – Specie di spazi. Bollati Boringhieri, Torino.
Revelli Nuto, 1977 – Il mondo dei vinti. Einaudi.
Hesse Hermann, Ore nell’orto. Biblioteca Universale Rizzoli 1995.

Per comprendere il Secondo principio della termodinamica:
Peter W. Atkins, 1988 – Il secondo principio. Zanichelli.

Fonte: L’ALPE, n. 7 – dicembre 2002 (Ed. Priuli & Verlucca + Glénat)

Nel giugno del 1992, al Summit della Terra di Rio de Janeiro, Severn Suzuki, una bambina canadese di dodici anni, zittì 108 capi di Stato con un discorso di sei minuti sui problemi del mondo. Sono passati quasi vent’anni, giudicate voi.

Buonasera, sono Severn Suzuki e parlo a nome di Eco (Environmental Children Organization). Siamo un gruppo di ragazzini di 12 e 13 anni e cerchiamo di fare la nostra parte, Vanessa Suttie, Morgan Geisler, Michelle Quaigg e me. Abbiamo raccolto da noi tutti i soldi per venire in questo posto lontano 6000 miglia, per dire alle Nazioni Unite che devono cambiare il loro modo di agire.
Venendo a parlare qui non ho un’agenda nascosta, sto solo lottando per il mio futuro. Perdere il mio futuro non è come perdere un’elezione o alcuni punti sul mercato azionario. Sono qui a parlare a nome dei bambini che stanno morendo di fame in tutto il pianeta e le cui grida rimangono inascoltate. Sono qui a parlare per conto del numero infinito di animali che stanno morendo nel pianeta, perché non hanno più alcun posto dove andare. Ho paura di andare fuori al sole perché ci sono buchi nell’ozono, ho paura di respirare l’aria perché non so quali sostanze chimiche contiene. Ero solita andare a pescare a Vancouver, la mia città, con mio padre, ma solo alcuni anni fa abbiamo trovato un pesce pieno di tumori. E ora sentiamo parlare di animali e piante che si estinguono, che ogni giorno svaniscono per sempre. Nella mia vita ho sognato di vedere grandi mandrie di animali selvatici e giungle e foreste pluviali piene di uccelli e farfalle, ma ora mi chiedo se i miei figli potranno mai vedere tutto questo. Quando avevate la mia età, vi preoccupavate forse di queste cose?
Tutto ciò sta accadendo sotto i nostri occhi e ciononostante continuiamo ad agire come se avessimo a disposizione tutto il tempo che vogliamo e tutte le soluzioni. Io sono solo una bambina e non ho tutte le soluzioni, ma mi chiedo se siete coscienti del fatto che non le avete neppure voi. Non sapete come si fa a riparare i buchi nello strato di ozono, non sapete come riportare indietro i salmoni in un fiume inquinato, non sapete come si fa a far ritornare in vita una specie animale estinta, non potete far tornare le foreste che un tempo crescevano dove ora c’è un deserto. Se non sapete come fare a riparare tutto questo, per favore smettete di distruggerlo.
Qui potete esser presenti in veste di delegati del vostro governo, uomini d’affari, amministratori di organizzazioni, giornalisti o politici, ma in verità siete madri e padri, fratelli e sorelle, zie e zii, e tutti voi siete anche figli. Sono solo una bambina, ma so che siamo tutti parte di una famiglia che conta 5 miliardi di persone [oggi 7, ndr], per la verità, una famiglia di 30 milioni di specie. E nessun governo, nessuna frontiera, potrà cambiare questa realtà.
Sono solo una bambina ma so che dovremmo tenerci per mano e agire insieme come un solo mondo che ha un solo scopo. La mia rabbia non mi acceca e la mia paura non mi impedisce di dire al mondo ciò che sento. Nel mio paese produciamo così tanti rifiuti, compriamo e buttiamo via, compriamo e buttiamo via, e tuttavia i paesi del Nord non condividono con i bisognosi. Anche se abbiamo più del necessario, abbiamo paura di condividere, abbiamo paura di dare via un po’ della nostra ricchezza. In Canada viviamo una vita privilegiata, siamo ricchi d’acqua, cibo, case, abbiamo orologi, biciclette, computer e televisioni. La lista potrebbe andare avanti per due giorni.
Due giorni fa, qui in Brasile siamo rimasti scioccati, mentre trascorrevamo un po’ di tempo con i bambini di strada. Questo è ciò che ci ha detto un bambino di strada: «Vorrei essere ricco, e se lo fossi vorrei dare ai bambini di strada cibo, vestiti, medicine, una casa, amore ed affetto». Se un bimbo di strada che non ha nulla è disponibile a condividere, perché noi che abbiamo tutto siamo ancora così avidi? Non posso smettere di pensare che quelli sono bambini che hanno la mia stessa età e che nascere in un paese o in un altro fa ancora una così grande differenza; che potrei essere un bambino di una favela di Rio, o un bambino che muore di fame in Somalia, una vittima di guerra in Medio Oriente o un mendicante in India. Sono solo una bambina ma so che se tutto il denaro speso in guerre fosse destinato a cercare risposte ambientali, terminare la povertà e per siglare degli accordi, che mondo meraviglioso sarebbe questa terra!
A scuola, persino all’asilo, ci insegnate come ci si comporta al mondo. Ci insegnate a non litigare con gli altri, a risolvere i problemi, a rispettare gli altri, a rimettere a posto tutto il disordine che facciamo, a non ferire altre creature, a condividere le cose, a non essere avari. Allora perché voi fate proprio quelle cose che ci dite di non fare? Non dimenticate il motivo di queste conferenze, perché le state facendo? Noi siamo i vostri figli, voi state decidendo in quale mondo noi dovremo crescere. I genitori dovrebbero poter consolare i loro figli dicendo: «Tutto andrà a posto. Non è la fine del mondo, stiamo facendo del nostro meglio». Ma non credo che voi possiate dirci più queste cose. Siamo davvero nella lista delle vostre priorità? Mio padre dice sempre: «Siamo ciò che facciamo, non ciò che diciamo». Ciò che voi state facendo mi fa piangere la notte. Voi continuate a dire che ci amate, ma io vi lancio una sfida: per favore, fate che le vostre azioni riflettano le vostre parole.

Severn Suzuki, oggi scrittrice e biologa, è stata intervistata da Cristina Gabetti su «Sette» del 21 aprile 2011.

Piero Gobetti
Con questa lunga citazione voglio esortarvi a leggere il saggio di Corrado Augias, e nel contempo, ricordare uno dei protagonisti che hanno dato vita alla corrente politica di socialismo liberale nota anche come “azionismo” che tenta di tenere insieme Giustizia e Libertà:

Si parla di rado di Gobetti, temo che solo pochi tra i più giovani sappiano chi fosse. Figlio di un modesto droghiere che aveva bottega nella centrale via xx settembre a Torino, Gobetti è stato giornalista, editore, saggista, ha avuto intuizioni politiche ma anche letterarie quasi profetiche. Basti pensare che è stato lui a pubblicare per primo, nella sua minuscola casa editrice, la raccolta Ossi di seppia del futuro Premio Nobel (1975) Eugenio Montale. Tra i suoi maestri ci sono Gaetano Mosca e Gaetano Salvemini ma anche Luigi Einaudi al quale chiederà (forte segnale) di firmare la prefazione al Saggio sulla libertà di John Stuart Mill da lui stesso, non a caso, pubblicato. Quella piccola casa editrice in due anni pubblicò un centinaio di volumi, molti dei quali rappresentavano il meglio della cultura liberal-democratica italiana. Nell’introduzione a un suo volume di scritti politici Carlo Levi lo descrive così: «Era un giovane alto e sottile, disdegnava l’eleganza della persona, portava occhiali a stanghetta, da modesto studioso: i lunghi capelli arruffati dai riflessi rossi gli ombreggiavano la fronte».

E ancora continua:

Si batte per una riforma del Paese che sia prima di tutto culturale e morale. Anche per questo rifiuta il fascismo che nasce dalla demagogia e dall’invadenza del cattolicesimo, un movimento che sotto l’apparenza innovatrice ripropone in realtà i mali tradizionali della società italiana.
Il fascismo lo ricambia perseguitandolo. Mussolini in persona si occupa di questo giovane poco più che ventenne ordinando al prefetto di Torino di intervenire con durezza. […] Sarà più volte picchiato dagli squadristi, la sua casa editrice chiusa, sequestrate le carte, boicottate le riviste. All’inizio di settembre del 1925, rientrato a Torino da un viaggio, viene di nuovo aggredito dalle squadracce. Non si arrende; scrive […]: «Bisogna amare l’Italia con l’orgoglio di europei e con l’austera passione dell’esule in patria». Anche a causa delle ripetute violenze la sua salute però peggiora, patisce gravi scompensi cardiaci mentre la sua casa editrice viene chiusa in via definitiva. Nel febbraio 1926 torna a Parigi, dov’era già stato più volte. Alla stazione di Genova viene a salutarlo Montale. A Parigi le sue condizioni di salute aggravate anche dalle ripetute aggressioni, precipitano; una polmonite ne compromette in maniera irreparabile il cuore. Il 15 febbraio 1926 muore. La tomba, commovente nella sua modestia, si trova nel cimitero Père-Lachaise. Requiescat.

Panorama Diano d'Alba
Tutto inizia con un sogno. E un pezzo dei Remember Remember, White Castle. Assaporare il silenzio è diventato sempre più difficile. Il silenzio può aver forme diverse. Sono i rumori quotidiani che normalmente non ci soffermiamo ad ascoltare normalmente: un cane abbaia in lontananza, il vento spira verso sud-ovest, il ronzio di qualche insetto, il vociare silente, alla domenica pomeriggio, di un paesino nel mezzo delle langhe. Ed è bello trovare il tempo per vivere l’esperienza, godere del silenzio, quindi. Stare soli con sè stessi e perdersi. Il sole è alto nel cielo e scalda piacevolmente una giornata agli inizi di dicembre. Da quanto aspettavo questo momento. Lo aspettavo da così tanto tempo che ora ne gusto appieno il sapore. Sapore di libertà, del poter vivere e del poter fare, ma soprattutto del poter essere.

Tu sei quello che tu vuoi, ma non sai quello che tu sei.

Mi sveglio al suono di Scottish Widows.

Quante volte abbiamo sentito pronunciare media, la parola di origine latina, midia? Quante volte l’abbiamo sentito erroneamente nei telegiornali? Ne storpiamo la pronuncia, quando invece dovremmo essere alfieri di quella corretta. Secondo me è imperdonabile. È più che ignoranza. Dovrebbero utilizzare determinati vocaboli solo coloro che ne conoscono l’etimologia e le origini.
Esistono anche altri tipi di storpiatura, soprattutto in campo tecnologico, come ad esempio l’acronimo HDMI, che si pronuncia correttamente “accadiemmei” e che invece diventa “accadiemmeai“, l’unione di due lingue. Errato, oltre che cacofonico.
Poi la dattilografia: capisco, non tutti possono sapere che dopo lapostrofo non ci va lo spazio, ma non perdono chi scrive un po’ utilizzando la ò, per non parlare della x utilizzata per abbreviare la preposizione per. Non lo accetto, stiamo parlando di due lettere in più da digitare, quanto tempo si guadagna? È una cattiva abitudine, un vizio che bisogna correggere. Ma la questione del per è ben poca cosa se confrontata a quella della k. Non vi fa schifo la cappa? È antiestetica ed il nostro alfabeto non la prevede, così come la j, la w, la x e la y.
Gli errori di battitura sono perdonati, ma solo se si rilegge e si pensa a quanto scritto prima di premere il tasto invio. Le chat e gli sms purtroppo sono i principali sdoganatori di questi orrori, e facebook non fa che accentuare questa tendenza.
La lingua cambia e si evolve continuamente certo, ma alcune regole hanno un preciso scopo che non andrebbe abolito né tanto meno dimenticato o ignorato. Perché fa parte della nostra cultura e della nostra identità.

Un ragazzo di colore mi si avvicina e subito reagisco in maniera stizzita, maleducata, gli dico che non ho soldi, ma lui con tutto l’orgoglio e la dignità che ha in corpo mi dice che i miei soldi non li vuole e che sta cercando lavoro. Rimango senza parole e guardo i suoi occhi, occhi rossi. Occhi solcati più volte dalle lacrime. Questa è la cosa che mi è rimasta più impressa. Il nostro rifiuto è sempre lì ad attenderli, senza poter mai tendere la mano invece di ritrarla. Credevano che il nostro fosse uno stato democratico. E invece vengono sfruttati e manovrati anche qui. Loro che hanno messo da parte la dignità e si sono lasciati alle spalle, famiglia e futuro nella loro patria per inseguire un sogno qui perché non gli era rimasto null’altro. Come ci riporta Domenico Quirico:

Non li fanno arrivare i vinti di Lampedusa, le prime vittime del muro amministrativo che sbarra il Mediterraneo, nell’aeroporto dei turisti, dei viaggiatori normali. Sì, questo paese di poveri si vergogna dei suoi emigranti che fa rientrare alla spicciolata, di soppiatto, come criminali. […] C’è fretta di cancellarli, farli sparire, dimenticarli: in teoria sono responsabili del reato di emigrazione clandestina. […] Chi li ha cacciati dall’Europa, venga qui a vedere il gemito strappato a questi ragazzi, i singhiozzi, questo dolore che fa paura perché muto. […] Gettiamo via uomini come se fossero cose. Infliggiamo dolore. E questo inutilmente. […] Non dimenticherò mai Ziad che ha in faccia il timore incessante della paura, la paura della paura che modella il viso dell’uomo coraggioso. Dopo aver ascoltato la sua storia di emigrante respinto, ho tentato di mettergli in mano più che potevo, per un senso di riverenza più che per compassione. E che mi ha detto no, con decisione: anche se fossero stati i mille euro che ha speso per tentare invano, il viaggio. Questi sono gli uomini che abbiamo respinto. E che faranno altre rivoluzioni. Anche se il coraggio logora come la paura.

L’ultima fatica di Domenico Quirico, giornalista e inviato di guerra ci accompagna in un excursus su quelle che sono state le primavere arabe partendo dalla strada, dal primo atto suicida in Tunisia che ha scatenato tutte le altre rivolte passando per quelli che definisce i maghi della pioggia: il tiranno riluttante Nasser, in Egitto, il padre padrone Burguiba in Tunisia; i traditori: Ben Ali in Tunisia, poi Mubarak in Egitto e Gheddafi in Libia. Traccia poi lo stato socio-politico dell’Africa del nord ed uno sguardo sui territori arabi e le loro organizzazioni, definite da Quirico il male arabo:

Al-Qaida, Hamas, i Fratelli musulmani, Hezbollah, i partiti che risiedono quieti nei parlamenti in Marocco e Algeria, fattucchieri de fama e insospettabili presunti.

Offre un quadro completo sulle presunte mire degli attivisti islamici, mettendo alla luce che le rivoluzioni dei popoli arabi sono solo all’inizio. Ci sono uomini disposti a tutto che tessono nell’ombra i destini di queste genti, facendo leva sui pilastri dell’islam per piegare la volontà delle masse e sfruttando i conflitti interni.

[…] principi che nessun musulmano può accettare, la sovranità del popolo al posto di quella di Dio, l’eguaglianza di chi crede e degli atei, l’egualianza contraria alla disposizione che impone il perseguimento del bene e la lotta al male, la libertà di espressione che impedisce la caccia agli apostati, l’eguaglianza tra uomo e donna che secondo il Corano determina la disintegrazione della società, l’idea di diritto contraria a quella di dovere verso Dio. Soprattutto, il concetto di maggioranza basata sul principio, empio che il numero di coloro che lo condividono determini che sia moralmente giusto. […] Una frammentazione sociale la cui base sono la tribù, il clan e il gruppo etnico-religioso piuttosto che la nazione o la società civile e una organizzazione autoritaria dove prevalgono paternalismo e coercizione piuttosto che consenso e eguaglianza e paradigmi assolutisti si combinano in bisboccia contagiosa con pratiche del potere legate al rito e al costume piuttosto che all’innovazione e alla spontaneità.

Il salafismo è una sorta di bolscevismo islamico. L’effetto vincolante non dipende dalla cosa prescritta ma dall’atto che la prescrive, ovvero la lettura letterale dell’islam come quella dei primi compagni del Profeta. Pensate a qualcuno che vuole affrontare i problemi del XXI secolo con codici messi a punto per le realtà economiche sociali e politiche del VII secolo! Quale modello chiuso a tendenza sistematica: dorénavant nessuno invochi né azione politica né partecipazione alle elezioni. Perché il potere deve essere conquistato con le armi e la guerra. Il sesto pilastro dell’islam.

Approfondisce per comprendere le efferate carneficine, dalle orgogliose popolazioni berbere dei Tuareg fino alla nascita di figure carismatiche del GIA e dell’AQMI come Said Kari e ovviamente Bin Laden. Una sfilza di assassini che per diverse ragioni combattono contro l’occidente.

Oggi i Tuareg, con nuovi capi, sono di nuovo in armi e una nuova parola d’ordine: non più l’indipendenza che appare un’utopia, vogliono la ricchezza della loro regione assetata, che si chiama uranio di cui il Niger è il terzo produttore mondiale. È lo stesso fenomeno che insanguina il delta del Niger, gonfio di petrolio: le popolazioni locali esigono che le ricchezze naturali non riempiano le tasche di governi lontani e corrotti e dei loro soci stranieri, lasciando solo terre devastate e inerti. Sullo sfondo lampeggia la mano di Al-Qaida che ha scoperto in questa zona del Sahara un nodo fragile del mondo.

Non sono attacchi terroristici senza uno scopo, gli scenari stanno cambiando, è tutto eccellentemente pianificato: la conquista dell’Africa e tutte le sue risorse.

C’è il sospetto che alcuni governi ormai tollerino o addirittura collaborino con AQMI, dietro scrupolosi ossequi all’alleanza contro il terrorismo. Il Mali per esempio: avrebbe siglato un accordo, consente che i terroristi abbiano basi e rifugi dove nascondere gli ostaggi nella parte nord del paese, in cambio rinunciano a compiere attentati.

La prospettiva più probabile e pericolosa è quella appunto di un jihad decentralizzato e multiforme, metà guerra santa e metà brigantaggio, con sezioni, ben radicate sul territorio, numericamente ridotte e quindi meno esposte all’infiltrazione e al tradimento ma in grado di portare colpi spettacolari (il modello AQMI).

Quirico ci insegna e ci mostra un mondo arabo ed una primavera araba completamente diverse da quella che le tv occidentali ci hanno voluto dipingere e dipingono ogni giorno.

La primavera araba ha introdotto comunque in questo quadro, in cui ogni cosa avveniva prevedibile come la caduta di un grave, una novità. Fanno uscire il sole della macchina repressiva dalla solita rotta. Le insurrezioni hanno spezzato la pantomima ben oliata entro cui operavano gli apparati del potere. La sorpresa di un popolo in piazza ha fatto da catalizzatore delle rivalità finora sotterranee ma miasmatiche.

Le rivoluzioni sono imprevedibili, scorrono come fiumi sotterranei che rampollano di colpo, dove non li aspetti. L’uragano sale con passi da ladro. Perché i popoli che sono sottoposti a regimi autoritari si difendono con il silenzio, e con la bugia. Ai grandi cultori dei sondaggi tutto sembra stabile, immobile. Le rivoluzioni nascono e si sviluppano nel chiuso delle case, nelle discussioni che nessuno può ascoltare; e che nessuno racconta. Poi di colpo le maschere cadono. E le strade si riempiono, i cori si alzano, la rabbia esplode, classi sociali che sembravano prudentissime e soddisfatte si incolonnano anche loro.

Rimane solo la dignità, quella cui qualunque essere umano spetta di diritto.

Siamo così soddisfatti da non aver tempo per porci domande secondarie come: ma questa gente per che cosa si batte, che cosa vuole, che cosa creerà in questi paesi quando la rivoluzione finirà? Cerca la «dignità». La dignità. Come fate a non vedere che è qualcosa di diverso dalla libertà e dai diritti umani?

«Ci pensate cosa abbiamo fatto, dannazione, e da soli, senza aiuti? Abbiamo sollevato il carico più pesante del mondo, abbiamo separato la verità dalla menzogna, abbiamo aperto e dettato la strada, un mondo immenso di milioni di uomini, libici, egiziani, siriani, yemeniti, e giù fin dove arriva la parola di Allah si sono incamminati sulla nostra strada e ci hanno imitato. Provate voi occidentali, a farlo!»

Sono cose che accadono nelle fiabe, e questa forse lo era.