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… preparare l’adattamento dell’animale umano al potenziale impoverimento del pianeta.
— Yona Friedman, architetto, 2009

« Caro Sindaco,
oggi abbiamo una Terra con sette miliardi di individui, dilaniati da disparità intollerabili, che con ogni loro bisogno e ogni loro scelta di consumo incidono sul clima, sull’acqua, sulla salute, sulla produzione di scorie e rifiuti di durata plurimillenaria, sulla disponibilità di cibo e materie prime, per sé stessi e per tutte le generazioni future. Abbiamo una tecnologia che non è mai stata così potente, ma è un’arma a doppio taglio. Abbiamo un mondo estremamente complesso, ma pure fragile. Abbiamo un’economia basata su un’impossibile crescita infinita, alla quale però obbediamo stoltamente come a una religione. Abbiamo religioni e ideologie antiche, totalmente inadeguate a gestire questo rapido cambiamento epocale.
Caro Sindaco, amministrare oggi è una responsabilità enorme, e sulle tue spalle grava non solo il giudizio dei tuoi elettori, non sempre informati, non sempre onesti, che vogliono solo risposte concrete per oggi, ma pure quello delle generazioni più giovani e di quelle ancora a venire, che ti condanneranno senza pietà o ti ringrazieranno per l’eternità, perché dalle tue scelte dipenderà il loro benessere.
Come per un grave malanno c’è un tempo nel quale la prevenzione ha ancora un senso prima che i sintomi divengano incurabili. Sei proprio tu, e solo tu quello che può fare ancora qualcosa. Adesso. Dopo sarà troppo tardi.
Allora prova a uscire dagli schemi, dal conformismo ideologico, dalle soluzioni semplificate, dalla comodità, dal piccolo o grande interesse, dall’ignoranza, dalla supponenza.
Prova a pensare a un progetto che parta dalle esigenze dei cittadini di oggi e di domani, coinvolga i centri di ricerca per trovare le soluzioni più razionali tramite la condivisione con le persone dei vari scenari possibili. Prova a immaginare città con aria più pulita, con più verde, con mezzi pubblici più efficienti, con più spazio per i piedi e le biciclette, con più risparmio energetico, con meno rifiuti, con meno automobili, con meno consumi superflui, ispirandoti a modelli virtuosi che stanno nascendo proprio nella nostra Europa.
Prova a ricreare i legami fisici e sociali tra città, territorio extraurbano e piccoli centri, fermando la cementificazione, promuovendo la diffusione equilibrata delle energie rinnovabili, i circuiti di produzione di cibo locale, la salvaguardia del paesaggio, la consapevolezza dei limiti.
Raccogli la sfida ecologica globale come punto di partenza per pensare il futuro con un progetto coraggioso che metta la ricchezza sociale prima della ricchezza economica, che pure potrà rigenerarsi con nuove produzioni ecocompatibili.
Oggi hai internet che ti permette di informarti più velocemente e più profondamente su ciò che accade nel mondo. Fai rete, circondati di una squadra competente in tanti settori: non potrai fare tutto da solo, è impossibile. Pensa al carattere di irreversibilità delle tue azioni: ogni grammo di CO2 in più nell’atmosfera, ogni metro quadrato di cemento in più e di suolo in meno, ogni capriccio al posto di una reale necessità avranno conseguenze anche gravi nel tempo e nello spazio.
Per favore, fai tanta manutenzione e poche inaugurazioni. Metti davanti a tutto la cura dei beni comuni, l’ambiente, la sanità, l’istruzione e la preparazione dei cittadini ad affrontare nuove scarsità: è l’unico modo per proteggere la società civile dalla trappola delle barbarie, che sempre emerge quando la torta diventa più piccola.
Tanti auguri, siamo tutti con te, perché il sindaco amministra con i cittadini. Insieme ce la faremo. »

Estratto da Prepariamoci (edizioni chiarelettere – 2011), pagg. 5, 6 e 7.

Inviate questa lettera al vostro comune. Il tempo del cambiamento è giunto.

Questo racconto di Luca Mercalli fu pubblicato su «L’Alpe», n. 7, nel dicembre 2002 e ripubblicato su Prepariamoci edito da ChiareLettere nel maggio 2011.

Range of mountains, Mont Blanc Isaac Ilich Levitan - 1897 Range of mountains, Mont Blanc
Isaac Ilich Levitan – 1897

Sarebbe già un conforto per la nostra debolezza se tutto perisse con la stessa lentezza con cui si è formato. Invece la crescita è lenta, la rovina è rapida.

Seneca, Lettere a Lucilio.

Pomeriggio caldo e polveroso. Da due mesi l’anticiclone subtropicale estivo opprimeva di caldo e siccità la pianura. La pista dell’aeroporto denotava scarsa manutenzione: la vernice bianca e gialla della segnaletica orizzontale era screpolata e ciuffi di erba secca spuntavano dalle crepe nell’asfalto ardente. Poca gente, poche aeromobili, servizi ridotti all’essenziale. Il viaggio era durato sette ore e ventidue minuti. Non tanto per la distanza percorsa, quanto per l’attesa alla partenza. La legge globale imponeva la massima efficienza nell’uso dell’energia e il velivolo decollò solo quando fu a pieno carico. Data la scarsità di viaggiatori si dovette attendere a lungo che tutti i 348 posti disponibili venissero occupati e le stive riempite. Durante il volo furono servite focacce salate in un cesto collettivo, nessuna reminiscenza dei complicati imballaggi usa e getta – se ne contavano un tempo fino a 19 per vassoio – che avvolgevano dispendiosi pranzi artificiali da pochi chilojoule alimentari.

Mi avviai a piedi verso l’uscita e attesi sotto il sole. Dopo trentaquattro minuti comparve un’automobile. Si fermò. Lo sportello si aprì permettendomi di occupare l’unico sedile ancora libero. Mi venne fornito il codice da inserire nel mio entropimetro da polso. Non dissimile da un orologio, si trattava di un misuratore del disordine prodotto dalla degradazione di energia non rinnovabile. Era di uso obbligatorio, fissato con un bracciale di quelli un tempo impiegati per i detenuti. Funzionava a celle solari e permetteva di calcolare la quota massima di consumo energetico per persona – o se volete, di entropia producibile – stabilita dalle leggi globali. Ogni attività che attingesse a fonti energetiche non muscolari o rinnovabili era razionata e soggetta a controllo. Non avrei mai potuto utilizzare un’auto a cinque posti secondo le assegnazioni individuali, solo mezzi collettivi a bassa produzione di entropia. Il codice che digitai sulla piccola tastiera si riferiva a priorità governative ed evitò la comparsa del segnale rosso che avrebbe causato il mio arresto ai posti di blocco. Chi veniva sorpreso a produrre più entropia della quota consentita era condannato alla restituzione maggiorata dell’energia sotto forma di lavoro muscolare.

Partimmo a bassa velocità. Fuori dall’aeroporto regnava la desolazione. Nella vivida luce del primo pomeriggio, edifici cadenti, vetri spaccati, cumuli di macerie, immensi parcheggi deserti a tratti punteggiati di carcasse arrugginite, shopville sventrate, l’azzurro sporco di vuote piscine che furono il capriccio di molti. Ovunque asfalto e cemento fessurati, costellati di crateri, invasi da erbacce. Pochi alberi limitati alle aiuole di centri commerciali e agli anelli degli svincoli autostradali. D’altro suolo naturale non ne era rimasto più, consumato tutto, ricoperto, impermeabilizzato, isterilito, inservibile. Comparve una miniera di rifiuti, una delle poche installazioni ancora attive sulle pianure. Qui lavoravano esseri impegnati nel recupero di materie prime ormai esaurite da decenni o di altre che era troppo costoso produrre: rame, alluminio, plastica. Pur comprendendo che la causa dei mali attuali stava proprio in quelle immense colline ributtanti nate dagli sprechi e dalla insostenibile entropia prodotta dal secolo precedente, erano comunque benedette da molti come unica fonte di risorse a basso costo. Era un risultato della crisi mondiale del 2068. Non ci volle molto. Fu come il gioco del domino, fu il collasso della complessità, l’apoteosi della non-linearità. L’effetto serra progrediva da cinquant’anni, temperatura media più tre virgola otto gradi, ma ci si fece l’abitudine. Al caldo di troppo si rispose mettendo al massimo i condizionatori d’aria e costruendo nuove centrali elettriche a petrolio. Un sabato, la temperatura alle ore 15 era di 37,8 gradi Celsius. La maggior parte degli abitanti della pianura iperurbana spendeva il pomeriggio in solarium e palestre, in centri commerciali, centri fitness, centri antirughe e centri antipeli. Il cielo si oscurò, ma pochi se ne accorsero, da tempo non lo guardava più nessuno, il cielo. Comparve un uragano, il primo uragano mediterraneo. I venti soffiarono a 494 km/h, tetti e automobili volarono via, la pioggia inondò le strade. Migliaia perirono. Altri uragani colpirono contemporaneamente qua e là nel mondo. Le assicurazioni non riuscirono a pagare i danni e fallirono. I governi fallirono. I trasporti divennero complicati e il commercio antieconomico: consumare più energia di quanta ne conteneva il carico stesso era follia. Ci si rese conto già dopo pochi giorni, che le verdure non crescevano al supermercato. Si cercò terra da coltivare – pochi sapevano ancora farlo -, ma non ne era più rimasta. Cemento, asfalto, macerie. Fu allora che ci si accorse delle montagne. Lì di terra ce n’era ancora. E anche di boschi e d’acqua. E anche un po’ di cultura e saggezza. La cultura della bassa produzione di entropia, dell’uso dell’indispensabile e della mancanza del superfluo. Il modello del climax fu a poco a poco riscoperto in antiche comunità relitte tra i monti. Climax, che in greco vuol dire scala e in ecologia vuol dire raggiungimento della stabilità. Non crescita continua, non corsa verso il totale sfruttamento delle risorse disponibili. Ma questa volta non si poteva più sbagliare. Ultima occasione. Fu costituito il governo globale. Le montagne furono ripopolate secondo un programma demografico a numero chiuso. Il benessere non era negato, ma moderato. L’uso dell’energia e del territorio, controllato e rispettato. La libertà soggiaceva semplicemente a leggi di natura, agli ineluttabili principi della termodinamica.

Ci avviammo verso le montagne. Le erbe riarse della pianura lasciavano il posto a ciuffi più verdi: le piogge sono più frequenti sui versanti. Il posto di frontiera era semplice ma efficace. Il codice di accesso contenuto nell’entropimetro permetteva l’apertura di un varco nel sistema di intercettazione elettromagnetico. Oltre la frontiera, erba verdeggiante e boschi. Quasi come un secolo prima. Ricordi lontani, echi di valli perdute. A sinistra, seminascosto, un deposito di materiali, frutto dei recuperanti, squadre di addetti al riciclaggio dell’immensa rete di tubi e congegni che decenni prima erano stati interrati tra boschi e pietraie: trattavasi di uno stravagante sistema per degradare energia nobile, chiamato un tempo “innevamento programmato”.

Ecco ora piccoli nuclei abitati sui pendii a pascolo. Case di pietra e legno con limitata dispersione termica, celle solari ovunque possibile, riciclo di tutti i prodotti domestici. Dighe per l’invaso delle acque e la produzione di preziosa energia idroelettrica. Trenini e piccoli autobus, rare le automobili. Economia mista, agricola e commerciale, come furono i popoli Walser o dei Sette Comuni.

La riunione era fissata per la sera, nella sala capitolare dell’abbazia. Mi fu assegnata una stanza in una locanda nella parte antica del villaggio. Ambiente accogliente, muri foderati di legno, una grande stufa di pietra in centro. Stanze sobrie ma linde, profumate di resina. Nessun idromassaggio ma una semplice doccia ad acqua calda solare, con rubinetto temporizzato per scoraggiare abusi: fu sufficiente ad asportarmi di dosso la polvere e l’angoscia intollerabile della pianura. Scesi al ristorante, illuminato morbidamente da poche lampade e candele: eccellente la frittata di patate e lardo, la minestra di spinaci e lenticchie, il formaggio d’alpeggio con miele. Non ostriche o manghi a quota milletrecentoventisei sul livello del mare. E neppure polverine per ridurre l’assimilazione dei cibi: gran segnale di decadenza che si presentò all’inizio del secolo, un nonsenso nell’universo biologico, da miliardi di anni teso a massimizzare la resa energetica. Sul tavolo, un rametto di pungitopo, non fiori del Kenya. Da bere chiesi acqua di fonte, del resto il commercio d’acque in bottiglia era proibito: per decenni gli autocarri avevano consumato quasi tanti litri di gasolio quanti ne avevano trasportati del normale liquido onnipresente.

Imbruniva quando uscii, la brezza di monte rinfrescava la piazza, un orto tranquillo, qualcuno passeggiava, perso in chiacchiere, qualcuno concludeva commerci quotidiani ma senza l’assillo della crescita infinita del PIL, abolito ovunque per l’incompatibilità dell’asintoto con il mondo reale.

Mi fu indicato l’ingresso abbaziale, un arco di pietra scura a sesto acuto, il chiostro nell’ultima luce serale, le nere gallerie, la sala millenaria. Il consiglio iniziò: “Recupero della memoria”, sessione decimottava. Qua e là l’antica comunicazione via Internet funzionava ancora e permise di ricucire un percorso, una storia di libri che i più giovani ormai ignoravano. Alcune biblioteche di bassa quota erano sopravvissute agli sconvolgimenti ambientali e sociali, ma era qui, sulle montagne, che si concentrava il nuovo sapere, era qui, tra le scure sale dell’abbazia che si ricostruiva e si custodiva la conoscenza. Come d’abitudine, ciascuno dei dieci partecipanti aprì una cartella, ne trasse un libro, ne uscirono voci lontane nel tempo, vicine nei fatti. Parlò Esiodo con le «Opere e i giorni» ricordando che “L’uomo ricco di immaginazione rimugina di fare un carro: stolto! Ché non sa nemmeno che cento sono i pezzi del carro e che bisogna prima radunarli in casa.”, parlò Virgilio con le sue Georgiche. “O troppo fortunati, se comprendono i loro beni, gli agricoltori! Ai quali lontano dalle armi discordi la terra giustissima produce agevole vitto dal suolo. Se non vedono un alto palazzo con porte superbe riversare da tutti gli atri un’enorme onda di salutanti mattinieri; se non ammirano a bocca aperta i battenti screziati di bella testuggine, drappi e fregi d’oro e bronzi efirei; se non imbellettano la bianca lana con porpora assiria, né corrompono l’uso del limpido olio mischiandovi la cannella, hanno una sicura pace, una vita ignara d’inganni, ricca di vari beni, un riposo in ampi terreni, grotte e vivi laghi, fresche vallate e muggiti di buoi e dolci sonni sotto gli alberi; ivi gole selvose e covili di fiere e giovani forti al lavoro e contenti del poco, sacri i riti degli dèi, santi i padri; tra loro la Giustizia, lasciando la terra, impresse le ultime orme”

Lucio Anneo Seneca con le «Lettere a Lucilio» mise in guardia: “Fino a quando le nostre messi copriranno estensioni di terreno sufficienti ad alimentare grandi città? Fino a quando tutto un popolo dovrà mietere per noi? Fino a quando una moltitudine di navi, e non da un solo mare, trasporterà provviste per una sola mensa? Un terreno di pochi iugeri basta per saziare un toro; una selva è sufficiente per molti elefanti. Per saziare l’uomo c’è bisogno della terra e del mare. E che? Dopo averci dato un corpo così piccolo, la natura ci avrebbe dato un appetito così insaziabile da superare l’avidità delle bestie più grosse e più voraci? Non è la fame del nostro ventre quella che ci costa molto, ma l’intemperanza.”

E poi Jean Giono con «Le vere ricchezze»: “E Mme Bertrand disse: Sto per fare il pane. Ella ha versato la farina, Bertrand è andato a cercare dell’acqua, e mentre lui era alla fontana lei ha compreso che questo pane era di certo un lavoro da donne, un lavoro per il quale ci voleva per così dire un sentimento materno, e, in più, ci voleva anche della seduzione. … Ma dove hai visto donne che impastano? Forse quelle che assomigliano agli uomini, ma io no! E allora? E allora, diss’ella, bisogna che ti togli la camicia e ti ci metti tu con le tue braccia massicce. … Quel giorno pioveva fitto senza lasciar pensare che finisse. Le cime delle montagne non si vedevano più. C’era una specie di luce che faceva venir voglia di dormire. Bene, cominciamo. Mme Bertrand gli accese il lume – perché è sempre scuro in quei profondi recessi della casa dove è custodita la madia – e via, si comincia. Egli ha immerso le braccia nella pasta. Ha sentito se era abbastanza umida o meno. D’un tratto, tutto un sapere s’è risvegliato in lui. Ha compreso cosa doveva fare. Ha pensato a gesti di suo padre e di sua madre, a rumori che aveva udito quando era fanciullo. Ha messo i suoi gesti nella traccia dei gesti dei suoi antenati. (…) Noi siamo là, davanti al forno comune di questo borgo di montagna: quest’opera di fuoco che hanno fatto rivivere, che crepita dolcemente, dal quale tra poco toglieremo le braci e inforneremo le miche di pasta. … C’è un lungo momento nel quale non diciamo più nulla. … Noi siamo come su una nuova arca di Noé. Noi portiamo l’essenziale in questo forno pieno di fuoco.”

Di Mario Rigoni Stern si trovarono due libretti sottili, «Sentieri sotto la neve» e «Inverni lontani»: “Il pastore, il malghese, il carbonaio, il cacciatore convivevano in armonia e il prelievo che veniva fatto in erba legna, selvaggina era a suo modo equilibrato: non si distruggeva il pascolo o il bosco di mugo, non si decimava la selvaggina, perché se ciò fosse accaduto si sarebbe finito in breve di pascolare, di far carbone, di cacciare. Una regola molto semplice.”
“In attesa dell’inverno anche da noi è bello lavorare non per accumulare denaro sul conto corrente ma scorte di legna secca, farina, patate, verdura in composta, marmellate, funghi secchi, oca a pezzi nel suo grasso, carne secca affumicata anche di selvaggina, lardo sotto sale nella pietra scavata a truogolo, sardelle pure sotto sale, formaggi, miele, e così via con i prodotti che la natura ci dona dalle semine di primavera alle raccolte dell’autunno.”

Con «Il mondo dei vinti» di Nuto Revelli si ebbe traccia di una difficile transizione avvenuta verso il 1970 – ormai più di un secolo fa -, tra il mondo contadino della montagna e quello industriale della pianura. Michele Giuseppe Luchese, nato nel 1885, era un contadino saggio di Roccasparvera, ai piedi delle Alpi del sud, e vide lungo: “La vita d’oggi? E’ fin troppo comoda, perciò la gioventù non si abbassa più a niente, vogliono solo più divagarsi, divertirsi e stare bene, lavorare più poco che si può. (…) io non sono né un profeta né uno spiritista, ma da un’estremità siamo saltati a un’altra. (…) La vita oggi è cambiata da così a così. Sì, è cambiata in meglio. Ma non per tutti. Oggi c’è il benessere, troppa abbondanza, alla radio parlano di milioni e miliardi come niente. Che vada sempre bene come oggi, io auguro ogni bene ai giovani. Ma il benessere bisogna anche saperlo curare, non sprecarlo”.

Che il contatto con la terra, con la natura, fosse irrinunciabile, apparve in Hermann Hesse, «Ore nell’orto»: “Qui si stende un tratto di terreno piano, un bene raro in un fondo così ripido, dove a ogni albero, ad ogni vite si fa posto con ingegno e accortezza, nei terrazzi strappati al pendio. Eccola proprio qui, piccola e stretta, ma pur sempre una striscia di terreno livellato, una benedizione; qui coltiviamo le nostre verdure, qui passiamo, uomo e donna, una parte dei nostri giorni, lontano da casa, nascosti nel verde; noi amiamo il nostro regno vegetale, e molto, perché qui si concentra un valore e una ricchezza non da poco, un valore che l’estraneo (ma non a tutti si concede di vederlo) stenta a capire, ma che noi apprezziamo come un tesoro di cui esser grati.”

Ma ormai il cambiamento di pensiero era in atto, conseguenza teorizzata da Thomas Kuhn con «La Struttura delle rivoluzioni scientifiche»: “Poiché l’unità di misura della conquista scientifica è il problema risolto e poiché il gruppo (professionale) sa bene quali problemi siano già stati risolti, pochi scienziati si lasceranno facilmente persuadere ad adottare un punto di vista che mette di nuovo in discussione molti problemi che sono già stati precedentemente risolti. La natura stessa deve essere la prima a mettere in pericolo la sicurezza professionale facendo sembrare problematiche le conquiste scientifiche raggiunte in precedenza”.

Infine, «Armi acciaio e malattie», di Jared Diamond, riservò sagge considerazioni: “Le prime società della Mezzaluna Fertile e del Mediterraneo orientale, ebbero la sfortuna di sorgere in un’area ecologicamente fragile, e commisero un suicidio ecologico distruggendo le loro risorse forestali. All’Europa occidentale e settentrionale questo fato fu risparmiato, non perché fossero abitate da popoli più previdenti, ma perché il loro ambiente era più resistente, con maggiori precipitazioni e rapida ricrescita della vegetazione.” Dunque “i sistemi storici sono estremamente complessi, perché sono caratterizzati da un numero enorme di variabili correlate. Piccoli cambiamenti a basso livello possono avere grandi effetti ad alto livello. … Comprendere i meccanismi della storia è molto più complesso che comprendere quelli dei fenomeni deterministici. …Faremo un grande regalo alla nostra società se capiremo cosa ha plasmato il mondo moderno, e cosa potrebbe plasmare il futuro”.

Per quella sera poteva bastare. Si lavorò nottetempo per riassumere, rielaborare e riflettere, e ne uscirono nuove indicazioni per affinare le leggi globali, sotto il governo del Secondo Principio della Termodinamica.

Frugando nella cartella alla ricerca di un taccuino, mi venne in mano un altro libello. Un libello come tanti, di quelli che si leggono per distrarsi mentre si aspetta un mezzo. Georges Perec, «Specie di spazi». Lo aprii a caso, pagina 93: «…la sensazione della concretezza del mondo: qualcosa di chiaro, di più vicino a noi: il mondo, non più come un percorso da rifare senza sosta o come una corsa senza fine, non più come una perenne sfida da accettare senza tregua, non come unico pretesto per una esasperante accumulazione né come illusione d’una conquista, ma come ritrovamento d’un senso, come percezione di una scrittura terrestre, d’una geografia di cui abbiamo dimenticato di essere gli autori.» Riunii di nuovo i colleghi dispersi e aggiungemmo un comma alla legge.

Quando uscimmo, albeggiava. Profumo di pane nell’aria fresca del mattino montano. Una nebbia sottile sul torrente, nel punto dove si apre e divaga nel fondovalle. E, come gorgoglia l’acqua, così la storia dell’uomo continuava a dipanarsi tra i valloni profondi, sui ripiani assolati, nelle gole ombrose, sulle creste ventose. Una storia nata forse in luoghi così in un tempo remoto. Una storia che un giorno, forse, tornerà di nuovo in pianura.

I testi citati sono:
Esiodo, Le opere e i giorni. Biblioteca Universale Rizzoli.
Virgilio, Le Georgiche. Biblioteca Universale Rizzoli.
Seneca, Lettere a Lucilio. Biblioteca Universale Rizzoli.
Giono Jean, 1937 – Les vraies richesses. Grasset.
Rigoni Stern Mario, 1998 – Sentieri sotto la neve. Einaudi.
Rigoni Stern Mario, 1999 – Inverni lontani. Einaudi.
Thomas S. Kuhn, 1969 – Struttura delle rivoluzioni scientifiche. Einaudi.
Diamond Jared, 1998 – Armi, acciaio e malattie. Breve storia del mondo negli ultimi tredicimila anni. Einaudi.
Perec Georges, 1989 – Specie di spazi. Bollati Boringhieri, Torino.
Revelli Nuto, 1977 – Il mondo dei vinti. Einaudi.
Hesse Hermann, Ore nell’orto. Biblioteca Universale Rizzoli 1995.

Per comprendere il Secondo principio della termodinamica:
Peter W. Atkins, 1988 – Il secondo principio. Zanichelli.

Fonte: L’ALPE, n. 7 – dicembre 2002 (Ed. Priuli & Verlucca + Glénat)