È qualcosa che mi crea un misto di malinconia e nostalgia allo stesso tempo.

Dopo diversi giorni il ritorno è qualcosa che mi riempie il cuore.

Il riposo acquista un valore diverso, posso essere me stesso e rilassarmi.

Il tempo si ferma, ho tutto il tempo del mondo, non sono mai in ritardo.

Quella che chiamo casa è un ambiente conosciuto, familiare.

Tutto questo si può capire solo lasciandola, per poi ritornarci.

È una sensazione unica, solo così si può carpirne la vera essenza.

Così come il sesso, ci hanno convinto che anche la morte è un tabù e perciò non bisogna parlarne, così facendo però non possiamo affrontare ciò che per natura fa parte di noi.

Non sappiamo fare altro che disperarci per la morte di qualcuno: non dovremo piuttosto gioirne? Nella filosofia orientale la morte ha un significato ben preciso: perdere qualcuno per acquisire una forza che serve alla nostra crescita interiore.

È un cambiamento enorme, lascia un vuoto che non posso lontanamente immaginare e non posso capire, ma serve ed andrebbe accolto.

Mai ritornello fu più vero.

Com’è vero che “il bonobo è una pericolosa alternativa sociale: dimostra che in natura esiste l’omosessualità e che l’uomo è aggressivo perché sessualmente represso e soprattutto che l’unico vero modo per vivere in pace è giocare, mangiare ed accoppiarsi alla faccia di religiosi, intellettuali e politici ben pensanti”.

Pensateci bene, dove si è mai parlato di bonobo in tivù? Cito la tivì perché ovviamente – e purtroppo – è il media più diffuso (almeno in Italia) per poter veicolare le informazioni nella maniera più veloce possibile. Anche se poi la TV non la guardo mai. Forse in qualche documentario di Piero Angela sarà stato avvistato, e non ho nulla contro Piero Angela, eh.

Wikipedia ci dice che il primo a scoprire la specie fu il tedesco Schwarz, ma il comportamento dell’animale fu studiato da parte di una spedizione giapponese in Congo. E tutt’ora si deve ai nipponici tutto ciò che si sa sullo scimpanzé più sovversivo del mondo (tra l’altro è minacciato, in pericolo d’estinzione e non credo che una volta estinti diverranno un monito per le generazioni a venire). Perché sovversivo? La risposta sta nel suo comportamento, roba da far impallidire l’uomo che non deve chiedere mai. Già, perché il bonobo utilizza pratiche sessuali per qualsiasi tipo di interazione con la comunità come la riproduzione ed il gioco. Anche prima di mangiare, per non creare tensioni inutili, gli scimpanzé pigmei si lasciano andare a pratiche erotiche per stemperare l’atmosfera. Il risultato è un’aggressività meno accentuata e più felicità per il branco. Tutto questo nella nostra società manca, a causa di una corsa alla competizione alimentata dal mito della crescita, da una religione che ci dice che il sesso libero è un peccato e da millemila bisogni secondari che ci distraggono dall’obiettivo principale della nostra vita: vivere in pace.

E sì. Ci hanno insegnato che il sesso è tabù, e se lo fai prima del matrimonio poi finisci all’inferno. E c’è gente che ancora ci crede e si rende schiava. Soprattutto se è sesso promiscuo. Infatti i bonobo allentano le tensioni soprattutto tra esemplari dello stesso sesso, dimostrando che l’omosessualità esiste anche in natura.

Frans de Waal è un etologo e primatologo olandese che studia il comportamento dei pan paniscus, sottolineando che l’uomo sarebbe più simile di quanto non si pensi e che se fosse meno represso dal punto di vista sessuale sarebbe sicuramente meno aggressivo e competitivo.

Molti dei cristiani più puritani avranno sicuramente denunciato l’antiCristo in terra leggendo queste parole e saranno già in rotta verso il Congo per la loro ennesima guerra santa (sì, minuscolo) contro i mulini a vento. È evidente che le religioni siano vetuste se interpretate come un credo che non accetta errori e che dei propri fa moniti da rispettare e a cui credere chiamandoli fede.

Esiste tutto ed il contrario di tutto. Amen.

Questo annuncio lo dedichiamo ai folli.
Agli anticonformisti.
Ai ribelli. Ai piantagrane.
A tutti coloro che vedono le cose in modo diverso.
Costoro non amano le regole, specie i regolamenti.
E non hanno alcun rispetto per lo status quo.
Potete citarli.
Essere in disaccordo con loro.
Potete glorificarli o denigrarli.
Ma l’unica cosa che non potrete mai fare è ignorarli.
Perché riescono a cambiare le cose.
Inventano.
Immaginano.
Compongono.
Esplorano.
Creano.
Ispirano.
Fanno progredire l’umanità.
E forse devono essere davvero un po’ folli.
Altrimenti come potreste stare di fronte a dei barattoli vuoti e vedere un’opera d’arte?
O sedere in silenzio e ascoltare una canzone che non è mai stata scritta?
O guardare un pianeta rosso e immaginare un laboratorio in movimento? Noi alimentiamo uomini fatti così.
E mentre qualcuno potrebbe definirli folli, noi vediamo il genio.
Perché solo coloro che sono abbastanza folli da pensare di poter cambiare il mondo, lo cambiano davvero.

Cercare conferme accettando gli imprevisti e attraversare il nostro tempo provando a intuirne i cambiamenti.

Un invito a osservare, a restare in ascolto, a coltivare il dubbio e a non rinunciare mai al proprio diritto di sdraiarsi a guardare il cielo.

Il fatto è che il cielo lo guardiamo poco, sempre meno, convinti di essere ormai capaci di vivere sotto un cielo artificiale che può fare a meno della natura delle stagioni.

Filosofia delle nuvole è una guida per chi vuole sognare ad occhi aperti. È un’analisi attenta delle nuvole: dalla loro nascita alla loro morte. Attraverso citazioni, poesie e documentazioni, scopriamo pagina dopo pagina che le nuvole fanno parte di noi, ch’erano oggetto di curiosità e studio fin dall’antica Grecia e che in questo gretto mondo materialista stiamo dimenticando lentamente i valori che contano davvero: i valori della semplicità, dei tempi lenti, dell’osservare ciò che ci circonda. In questa lotta all’ultimo sangue per la competizione, in questa corsa ad ostacoli in cui non ci saranno vincitori, ma solo perdenti.

Come tutte le filosofie spicciole, anche quella delle nuvole vuole una morale. Per me è questa: far vedere che la scienza e la conoscenza del mondo che ci circonda sono in grado di motivare e riempire una vita, sono una guida, una compagnia, un obiettivo e un nutrimento spirituale. Tutto ciò non risolverà i grandi problemi dell’uomo, non sopprimerà la violenza, le guerre, il dolore e la tristezza, ma forse eviterà che si accrescano senza limiti, toglierà un po’ di stupidità e banalità dal mondo, regalerà un po’ di benessere e chissà, forse anche qualche attimo di felicità e qualche barlume di saggezza.

L’osservazione e lo studio della natura sono in grado di regalare molte più emozioni positive, durevoli, in perenne rinnovamento, e soprattutto in grado di contribuire al progresso di se stessi e, se si è particolarmente fortunati, anche dell’umanità. Accorgersi che esistono la fisica e la letteratura, la geografia e la pittura, e il metterle in stretta relazione, è una questione di sensibilità, di apertura degli orizzonti che arricchisce noi e gli altri, evitando di restare — lo disse Leonardo — «puri transiti di cibo e aumentatori di sterco».

Dalle origini delle nuvole, Mercalli passa ad illustrare la nascita della scienza meteorologica consolidando teorie basate sul modello Galileiano di scienza.

Al di là della concezione scientifica che vorrebbe mantenere una meteorologia in qualche modo libera e pura al servizio dell’umanità, l’attuale recente spinta alla commercializzazione di qualsiasi servizio offerto, anche da parte di organi di Stato, rende realistico lo spettro della graduale restrizione dalla diffusione dei dati atmosferici. Le scienze dell’atmosfera divengono sempre più un frammento del mostruoso ingranaggio dell’economia mondiale.

Siamo più poveri di esperienze sensoriali, le variazioni meteorologiche sono una parte importante della nostra vita e della percezione del mondo, annullarle così è come scegliere di vivere in una campana di vetro e guardar fuori un mondo sempre più estraneo e irreale. Siamo più deboli perché dipendiamo da un sistema energetico e tecnologico che non è detto si possa mantenere per sempre, e non siamo quindi più pronti ad accettare quei semplici gesti, quella preparazione psicologica al cambiamento che era anche solo la scelta dell’abito in funzione del tempo.

L’avvicendarsi del tempo meteorologico suscita invece attesa, sorpresa, mutamento, rinnovamento. Il tempo equivale a metafora della vita, primavera, autunno, calma, tempesta, caldo e freddo, libertà e oppressione. Pensare di poterne fare a meno è negare la vita.

Analizza poi ciò che accadeva in Italia, scoprendo che dagli inizi del 1870 eravamo all’avanguardia in questo campo, grazie all’alacre e meticolosa annotazione di tutti i cambiamenti morfologici e idrici dell’intero territorio italico; carte che ancora oggi vengono utilizzate a base dello studio in campo meteorologico italiano. Come ci si può aspettare, oggi tutto ciò non esiste più: l’efficiente sistema è stato abbandonato in favore della tecnologia e del vil danaro, proprio negli anni 60/70 (dalla scoperta del petrolio), smantellando la preziosa rete d’informazioni che si era venuta a creare.

Fu l’Epoca d’Oro dell’osservazione meteorologica italiana: attorno al 1930 il personale del Servizio Idrografico ammontava a quattrocento unità, e suscitava l’ammirazione da parte di autorevoli figure dell’idrologia europea.

Gli Annali Idrologici sono una collezione di grigi volumi, sobri e poco appariscenti, pieni di tabelle di numeri. […] Contengono la più straordinaria e completa informazione, giorno per giorno, su quasi un secolo di clima italiano.

Il tutto costruito con pazienza e competenza, senza strafare, ma con la continuità di veri e propri ragionieri della pioggia: non c’erano i computer a facilitare questo mestiere, c’erano fogli di carta di recupero, un lapis, e calcoli eseguiti col regolo. […] Niente progettazioni faraoniche, dubbie gare d’appalto, costosi strumenti. […] Un bell’esempio di capacità italiche sfruttate al meglio, il saper fare molto con poco.

Dagli anni settanta, è la débâcle totale: l’energia si fa ormai con il petrolio o con l’atomo, i canali e le dighe d’alta montagna sono considerate un elemento marginale. Poco importa anche dell’agricoltura, contano le fabbriche, l’industria che corre, che tutto macina, che non ha bisogno di sapere quanto piove nei grigi capannoni dove non piove mai. Il Servizio Idrografico diviene così uno di quei ricettacoli per qualche buona poltrona con stipendio assicurato, pensione statale e poche, pochissime responsabilità.

Nel 2003 è stato decretato l’atto di morte del servizio, con la frammentazione di ciò che restava dalla gloriosa rete e l’attribuzione alle regioni. Ciò che quasi un secolo fa, fra enormi difficoltà, era stato unito con sapienza in un quadro geografico coerente, oggi è polverizzato in un mare di competenze, metodi e volontà diverse.

In maniera filosofica Mercalli ci regala un meraviglioso excursus sul clima italiano e non solo, citando diversi autori nostrani e non (da Rodari a Pavese, da Montale a Leopardi). Com’erano le stagioni in quegli anni? Come se ne parlava? La risposta è semplice: in maniera pragmatica e poetica. Non si si lamentava, ma anzi si ammirava e si studiava la forza della natura.

Parla anche della sua amata montagna e dei suoi innumerevoli ghiacciai.

Fino ai giorni nostri. Cominciando dai problemi principali che riguardano noi tutti, come l’effetto serra ed i cambiamenti climatici, Mercalli affronta queste tematiche sempre con il metodo scientifico sfatando miti e deridendo infondate voci di corridoio (vedi i cannoni contro la grandine), invitando sempre a pensare con la propria testa (se dotata di intelletto), senza invocare battaglie donchisciottiane ed utopiche.

La convinzione popolare che l’attuale fase calda si inserisca in una normale ciclicità naturale, alla quale, presto o tardi, seguirà un nuovo episodio freddo, non è condivisa da tremila climatologi dell’Intergovernmental Panel on Climate Change, ormai persuasi, in base a innumerevoli dati e verifiche incrociate, che l’attuale cambiamento porti anche la firma dell’uomo.

Il Protocollo di Kyoto tenta di ridurre l’uso dei combustibili fossili e di privilegiare quello delle energie rinnovabili, ma la sua applicazione è in stallo per il timore che le sia pur modeste limitazioni proposte possano ridurre la crescita economica mondiale. L’economia vuole crescere all’infinito e non tiene conto dei limiti imposti dalle leggi della termodinamica.

Eppure in Italia il riscaldamento globale è ancora considerato al pari di una burletta.

Siamo in troppi e consumiamo troppo, questa è la realtà. […] La continua spinta alla crescita demografica ed economica, allo sviluppo (tutt’altro che sostenibile) che vuole più auto, più treni, più strade, più case, più posti di lavoro, più ricchezza, più benessere, tutto perfettamente interpretato dalla pubblicità trionfale di questo periodo storico accecato dall’abbondanza e dallo spreco, non è compatibile con le leggi fisiche che regolano l’ecosistema.

Ma Mercalli offre soluzioni sostenibili, non si limita solo a dire che le cose non vanno affatto bene. Approfondirà questo argomento nella sua successiva opera, Prepariamoci.

Il nostro mondo si regge sui combustibili fossili e la loro sostituzione è un processo difficile, lento e costoso, che non ha una soluzione magica. Però la graduale introduzione delle energie rinnovabili, l’efficienza energetica degli edifici e delle attività industriali, il cambiamento delle abitudini di consumo, una certa sobrietà e moderazione del mondo ricco a vantaggio del soddisfacimento dei bisogni primari dei Paesi in via di sviluppo sono sfide realistiche che possono essere affrontate da tutti e da subito.

Ci vuole fantasia, ci vogliono idee nuove che spesso non sono facili da applicare, perché schiodare  le persone dalle loro abitudini è la cosa più difficile. Ma forse costruire una nuova centrale nucleare è cosa facile?

Per dirlo brevemente, la morale è questa:

Correre meno e fermarsi a guardare le nuvole.

Per la teoria della psicologia inversa: non leggetelo.

vecchia

L’altro giorno, passeggiando per un immenso parco polmone-verde della sempre-incantevole Melbourne in un pigro pomeriggio post pranzo, tra una gentile brezza invernale che autocompiacentemente ci permetteva di stuzzicare quel poco di pelle scoperta che le offrivamo e un onnipresente sole cocente che ci accompagnava facendo timidamente capolino qua e là tra le fronde dei maestosi alberi di ogni specie che andavamo incontrando (essendo giustamente in un giardino botanico dalle dimensioni mastodontiche come in una sorta di museo nazionale all’aperto), chiacchieravo con un amico australiano del più e del meno. Quasi subito ci siamo ritrovati a discutere di alcune delle irregolarità linguistiche che sono solite colpire le lingue naturali imperfette – si sa che l’aria fresca e la natura conciliano pensieri di alta levatura intellettuale. Da qui, quale potesse essere la parola più lunga nelle nostre rispettive lingue: italiano e inglese. Al mio amico è venuta in mente una parola che ha a che fare con un tipo di malattia forse dovuta a un’inalazione di polveri sottili, a me invece la parola “precipitevolissimevolmente”. Lo scambio di questo genere di informazioni è poi terminato lì nel nulla esattamente da dove è nato – dal nulla – e abbiamo poi orientato il nostro discorso su altre problematiche. Però mentre continuavo a camminare non riuscivo a smettere di pensare a questa parola lunghissima italiana la cui connotazione (scherzosa), per chi non lo sapesse, – dubito – è qualcosa del tipo “in modo veloce, precipitoso” . Mi è subito venuto da storcere il naso pensando a quanto è effettivamente vera la questione di arbitrarietà che caratterizza una qualsiasi lingua naturale (mi piace distinguere tra lingue naturali e lingue artificiali perché sono un forte sostenitore delle seconde e ritengo, da idealista che sono, che una lingua veramente degna di essere chiamata internazionale non può che essere una lingua artificiale; per determinati motivi ovviamente che sarei lieto di illustrarvi con la dovuta calma, se volete, a mo’ di testimone di Geova con tutta la documentazione e volendo con la vestimenta da funerale, un giorno in cui ci ritroveremo seduti attorno a un tavolino di un bar a berci un caffè insieme). Non riuscivo a capacitarmi del fatto, per dirla alla Saussure, che significante e significato non corrispondono in nessunissimo modo. Come si è potuta ideare una parola così lunga per descrivere qualcosa che visivamente non riesce a evocare l’idea che dovrebbe suggerire? Credo si tratti di un paradosso che non ha proprio senso. Cioè immaginatevi il contesto: una signora anziana viene derubata della borsetta e lo scippatore si affretta ad allontanarsi per mettersi in salvo con la magra refurtiva. La povera vecchina si ritrova così costretta a gridare all’agente di turno ‘Al ladro al ladro! Mi recuperi la borsetta precipitevolissimevolmente, per la miseria!’.

Morale della favola: prima che abbia finito di urlare, il ladro ha avuto tutto il tempo di passare in due case, svuotarle e andare a tradire la moglie con l’amante; che si scopre essere poi la vecchietta stessa che ancora è impegnata a cercare di finire di sbraitare la frase mentre lui ha già raggiunto l’orgasmo ben due volte.
E la frase potrebbe anche durare più del dovuto, perché pronunciando siffatta parola la lingua rischia di contorcersi malamente incastrandosi tra i denti e portando la povera vecchina ad incespicare e a perdere la dentiera a causa di una pressione scorretta sulla stessa. Mica è facile, provateci voi a dirla senza leggerla.

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« carpe diem, quam minimum credula postero »
(trad. carpe diem, non pensare a domani.)

Ho avuto occasione numerose volte di sentire amici, nemici, conoscenti o addirittura gente del tutto indifferente pronunciare “carpe diem” oppure “cogli l’attimo”, famosa locuzione tratta dalle Odi di Orazio, poeta latino. Ho visto qualcuno, nuotatore professionista nell’oceano della spavalderia, in grado di metterla in pratica senza remora alcuna; altri invece (e penso in particolare a quegli individui sofferenti di idiosincrasia verso ogni forma di atteggiamento dionisiaco perché timidi, casti o semplicemente più inclini alla riflessione – o alle masturbazioni mentali, come dice il caro vecchio Woody in una delle sue “poesie-in-celluloide” più geniale; e colgo l’occasione per  scusarmi se ogni tanto quel treno che è la mia mente deraglia o meglio dirotta su rotaie di pensieri divergenti da quello principale ma sentivo la necessità di chiarire che chiamarlo semplicemente “film” significherebbe non rendere i dovuti onori a un genio militante nel mondo del cinema d’autore da ormai troppo tempo e con la speranza che continui a rimanerci a lungo) [altri invece, dicevamo..] quando si ritrovano in alcune ‘situazioni di svolta’ che potrebbero cambiare anche solo per poco le sorti della propria vita, magari ben consapevoli di cosa stanno per perdere dato che l’occasione non si ripeterà mai più allo stesso modo, non riescono comunque a lasciarsi andare completamente – a liberarsi dalle catene dell’abitudine, della timidezza, della paura – e cogliere questo “attimo” fuggevole che gli spetta di diritto, probabilmente atteso con bramosia da una vita.
Una volta qualcuno mi disse: “ogni lasciata è persa”, che a me sembra personalmente una versione un po’ più scadente, quasi un’autogiustificazione per l’alleviamento temporaneo dei frequenti pruriti ormonali (adolescenziali) da parte di chi la pronuncia nonché certamente limitante rispetto al suo contraltare originale, dotato senz’altro di ben più ampio respiro e intensità poetica. E non solo per la bellezza e la maestosità del rincorrersi elegante dei suoi fonemi che sembrano sposarsi alla perfezione nella celebre locuzione latina e che di conseguenza sembra quasi assumere le caratteristiche di un mantra laconico o di una formula magica rivelata (inoltre, per alcuni parlanti delle lingue romanze – non stupitevi, succede vi dico – potrebbe anche rimandare all’idea di un pesce commestibile d’acqua dolce dal colore verdastro magari da assaporare con salsa polacca tra deliziose patate al forno e fogliette di insalatina fresca d’orto, il tutto accompagnato da un buon Arneis conservato per le occasioni più ordinarie tipo cena di costrizione domenicale con la suocera; oppure – perché no – da assaporare in carpione, in modo da ricreare, neanche a farlo apposta, un’allitterazione (CARPe in CARPione) le cui consonanti occlusive /c/ e /p/ e la vibrante /r/, fonosimbolicamente parlando ovviamente, rimandano a un’idea di durezza e di asprezza che guarda caso non è nemmeno poi troppo distante dal sapore che l’aceto, in cui il pesce ignaro del suo destino viene imbevuto e lasciato riposare durante la preparazione, gli conferirebbe).
Non solo per la somiglianza ad una elegante e sofisticata formula magica, dicevamo, ma anche per un significato più profondo che va sicuramente ben oltre l’idea di una vita vissuta in vista di un presente transitorio, effimero e “invidioso” da godere secondo un’ottica puramente edonista-tamarra come si evince sempre di più dai discorsi intrattenuti con la maggior parte delle persone che molto spesso decide di rinunciare ai propri sogni e alle speranze per vivere in maniera apparentemente più spensierata e facile ma sicuramente meno soddisfacente da un punto di vista qualitativo in quanto ospiti temporanei in un mondo da esplorare (poi va be’, ci sono persone che sono proprio fatte così, dotate di istinti più animaleschi o quei superficiali cronici che non si sono evoluti verso quella forma più alta cui ogni essere umano dovrebbe almeno provare ad aspirare; e non potendosene rendere conto vivono bene lo stesso, beati loro!).
“Cogliere l’attimo” dovrebbe significare, secondo me, riuscire a godere di quel discutibile potere di libertà che abbiamo di fare di noi ciò che vogliamo in un determinato momento della nostra vita, un preciso momento che necessita però di una scelta responsabile e responsabilizzante che deve essere fatta molto spesso con il giusto tempismo e che apporta determinate conseguenze (potrebbe infatti (a) porre fine ad altre possibilità non per forza migliori non per forza peggiori e (b) coinvolgere la vita di altri individui). Conseguenze spesso irreversibili e sofferte nei primi tempi apportate a una dimensione futura che gode già di una dimensione di presente in potenza. Ed è proprio in vista di un futuro che diventerà presente che occore essere lungimiranti, perché poi un nuovo presente si presenterà come conseguenza di una scelta fatta nel passato e che potrebbe fare la differenza nella qualità della vita presente-futuro di ognuno.
Il “mantra”, viene continuato da Orazio con un ‘non pensare a domani’. Io proporrei più che altro di ‘non pensare a ieri’, se proprio dobbiamo precluderci la dualità bellezza-sofferenza del pensiero che ci caratterizza in quanto esseri umani. Se il futuro è spesso considerato luogo di tensione che provoca ansia a causa dello sconosciuto, è proprio nel fattore sorpresa che del domani non v’è certezza che dovrebbe trovare invece il suo valore e dignità come luogo delle possibilità; il passato è, luogo di identità, diverso per tutti, in quanto contenitore di esperienza vissuta reale che ci dice chi siamo ora nel presente e quali carte abbiamo giocato in quanto individui unici e irriproducibili, ma proprio per questo anche luogo dei sensi di colpa per eccellenza e dei ricordi dolorosi dai quali nessuno può sfuggire, formatisi a causa di alcune aspettative non soddisfatte proprio laddove l’uomo ha incontrato una qualsiasi forma di negazione o un ostacolo al suo desiderio di essere onnipotente e amato. L’ansia verso il futuro, nel bene o nel male, può anche essere bypassata se si impara a controllarla in maniera consapevole, ma il senso di colpa è qualcosa che si radica e che ti rode dall’interno, come un ospite indesiderato  sempre pronto a ricordarti quanto fallirai di nuovo, destinato a tenerti la mano tutta la vita se non si opera in tempo e nemico del carpe diem .
Una versione migliore dovrebbe quindi essere: “Carpe diem sì, però pensa anche alle conseguenze sul futuro e piuttosto non fare l’errore di pensare a ieri, in vista di un futuro-presente di qualità”. In pratica cogli l’occasione del presente per costruire un presente-futuro migliore.
Un carpe diem davvero personalizzato per un essere umano responsabile che vuole vivere bene sì, ma anche pensando agli altri e al mondo in cui vive con in più un senso di responsabilizzazione. E questo principio vale in assoluto per ogni tipo di cosa. Provate a pensarci. Dal campo affettivo a quello ambientale, dalla salute and so on.
A parole tutto facile come sempre e nella vita si sa che sono le cose che fanno male o fanno del male a piacere di più. Il problema vero tanto rimane che siamo umani volubili, le cui diverse esperienze forgiano il modo di pensare e le nostre idee sul mondo che – se intelligenti abbastanza da capirlo –  possono cambiare nel tempo facendo di noi persone, non nuove e nemmeno tanto diverse, semplicemente più esigenti e sempre più placcati da quella infernale autocommiserazione del “se avessi, se fosse andata così”.

« In Socrate, il dubbio si concilia così con la verità, che è la consapevolezza di sé, a partire dalla quale egli riconosceva come falsa e illusoria ogni forma di sapere che non derivi dalla propria interiorità. »

« “Solo gli imbecilli non hanno dubbi.”
“Ne sei sicuro?”
“Non ho alcun dubbio!” »
(Luciano De Crescenzo, Il Dubbio)

Ci sono momenti in cui la mente umana elabora le informazioni provenienti dall’esterno in maniera negativa. I pensieri negativi influenzano le azioni e tutto appare spento, senza luce.

In altri frangenti invece, ogni aspetto è gioia, bellezza, i colori sgargianti, vivere è la cosa più bella che ci sia mai capitata.

Per me è così per poco, ciò che mi circonda sembra effimero. Il dubbio mi attanaglia senza sosta: non credo si tratti di volubilità, “mi contraddico così spesso che questo fa di me una persona coerente”.

Il dubbio scava dentro di me gallerie infinite e naufragar m’è dolce in questa oscurità.

Poi mi riprendo: attimi di lucidità; riemergo dalle tenebre: il mondo sembra di nuovo volgere al meglio, ma è un’illusione, il circolo vizioso si ripete, all’infinito.

Tanto, tanto tempo fa, viveva in una casetta in riva al mare, un pescatore. Ormai non ricordava più il suo nome, l’aveva dimenticato, insieme al suo passato, perso nell’oblio.

Un giorno, mentre sonnecchiava seduto accanto alla sua canna da pesca, un tuffo al cuore lo svegliò: vide qualcosa affiorare dalle profondità delle acque: un pesce dalle fattezze umane cercava di parlargli; l’uomo si sforzò di capire cosa la strana creatura cercasse di dirgli, ma invano… Così si avvicinò tendendo l’orecchio: in meno di un battito di ciglia venne scaraventato in acqua.

Non riemerse mai più.